CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 23 marzo 2011 n. 3
- Pres. de Lise, Est. Caringella
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel confermare che il
processo amministrativo è volto a "scrutinare la fondatezza della
pretesa sostanziale azionata" e l'interesse legittimo è "la posizione
di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della
vita interessato dall'esercizio del potere pubblicistico" esclude la
sussistenza di una pregiudiziale d'annullamento ai fini del
risarcimento.
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA - sentenza 23 marzo 2011 n. 3 -
Pres. de Lise, Est. Caringella
1. Il codice del processo amministrativo ha superato la tradizionale
limitazione della tutela dell'interesse legittimo al solo modello
impugnatorio, ammettendo l'esperibilità di azioni tese al conseguimento
di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare
la pretesa della parte vittoriosa. Di qui, la trasformazione del
giudizio amministrativo da giudizio amministrativo sull'atto, teso a
vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di
ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a
giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la
fondatezza della pretesa sostanziale azionata.
2. L'interesse legittimo non rileva come situazione meramente
processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione
del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in un mero
interesse alla legittimità dell'azione amministrativa in sé intesa, ma
si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo
intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un
bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di
insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o
pretensivo) può concretizzare un pregiudizio. L'interesse legittimo va,
quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto
in relazione ad un bene della vita interessato dall'esercizio del
potere pubblicistico, che si compendia nell'attribuzione a tale
soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del
potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa
dell'interesse al bene. Anche nei riguardi della situazione di
interesse legittimo, l'interesse effettivo che l'ordinamento intende
proteggere è quindi sempre l'interesse ad un bene della vita che
l'ordinamento, sulla base di scelte costituzionalmente orientate
confluite nel disegno codicistico, protegge con tecniche di tutela e
forme di protezione non più limitate alla demolizione del provvedimento
ma miranti, ove possibile, alla soddisfazione completa della pretesa
sostanziale.
3. La domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro
patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti del
provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all'azione
impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo
rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con
chiarezza superato.
4. Il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di
rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza
eziologica dell'omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di
escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale
di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di
tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento
potenzialmente dannoso.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3 di A.P. del 2009, proposto
da:
Fallimento Rem S.r.l., in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Romano, con domicilio
eletto presso Ennio Luponio in Roma, via Michele Mercati, 51;
contro
Enel Distribuzione S.p.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Mario Libertini, con
domicilio eletto presso Mario Libertini in Roma, via Boezio, 14;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE I n. 05922/2007,
resa tra le parti, concernente RISARCIMENTO DANNI A SEGUITO DI APPALTO
PER REALIZZAZIONE IMPIANTI ELETTRICI
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Enel Distribuzione S.p.A.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2011 il Cons.
Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati Romano e
Libertini.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il Fallimento della società s.r.l. Rem, appaltatrice da lungo tempo dei
lavori di realizzazione e manutenzione di opere ed impianti elettrici
per conto dell'Enel, espone che durante l'esecuzione dei lavori di
potenziamento di linea elettrica di cui al contratto di appalto del 21
settembre 1998 si era verificato un incidente mortale a danno di un
proprio dipendente, a seguito del quale l'Enel, al quale il sinistro
era addebitabile, le aveva comminato, con determinazione della
Direzione Distribuzione Campania in data 30 settembre 1999, la
sospensione degli inviti a gare d'appalto nell'intero ambito
territoriale di competenza per un periodo di nove mesi a far data dal
1° ottobre 1999.
Con atto di citazione notificato il 6 maggio 2002 la società Rem
conveniva l'Enel davanti al Tribunale civile di Napoli per ottenere il
risarcimento dei danni cagionati dalla disposta esclusione dalle gare
d'appalto. Con sentenza n. 6221 del 25 maggio 2004 il Tribunale
dichiarava la propria carenza di giurisdizione in ragione della
riconducibilità della res litigiosa alla sfera di cognizione del
Giudice amministrativo. Il Fallimento Rem proponeva, quindi, ricorso
innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania con il
quale chiedeva l'annullamento dell'illegittima determinazione dell'Enel
ed il risarcimento dei danni cagionati da detto provvedimento.
Con la sentenza impugnata il Giudice di prime cure ha dichiarato
irricevibile la domanda di annullamento del provvedimento, in quanto
proposta, anche a considerare come dies a quo la data dell'atto di
citazione davanti al Tribunale civile, ad oltre due anni di distanza e
ha negato l'errore scusabile facendo leva sul rilievo che il ricorso al
Tribunale Amministrativo è stato proposto a distanza di oltre un anno
dalla pubblicazione della sentenza declinatoria della giurisdizione
civile.
Il Giudice di primo grado ha, poi, respinto la domanda risarcitoria
tracciando una parabola argomentativa nel corso della quale ha
riconosciuto che la pretesa risarcitoria può essere azionata
indipendentemente dalla previa impugnazione dell'atto illegittimo ma ha
ritenuto che la mancata reazione al provvedimento lesivo si fosse nella
specie risolta in una sostanziale acquiescenza del danneggiato,
configurando una condotta omissiva apprezzabile alla stregua dell'art.
1227 del codice civile.
Con l'atto di appello il Fallimento ha chiesto la riforma di detta
sentenza sostenendo che, con riguardo ad una controversia attribuita
alla giurisdizione esclusiva, ratione materiae, del giudice
amministrativo, non opera il regime decadenziale proprio della
giurisdizione di legittimità; e che, comunque, le oscillazioni
registratesi in sede giurisprudenziale in ordine al riparto della
giurisdizione avrebbero giustificano l'applicazione dell'istituto
dell'errore scusabile ingiustamente negata dal Tribunale.
L'appellante ha poi contestato che la mancata impugnazione del
provvedimento amministrativo possa costituire fattore ostativo alla
favorevole valutazione della domanda risarcitoria.
In particolare, parte ricorrente ha osservato che, a fronte
dell'integrazione di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito
aquiliano ai sensi dell'art. 2043 c.c., l'eventuale acquiescenza
addebitabile al danneggiato può al più comportare, ai sensi dell'art.
1227, capoverso, del codice civile, una diminuzione dell'importo del
risarcimento, ma non può escluderlo in via integrale come erroneamente
ritenuto dal Tribunale.
Si è costituita l'Enel Distribuzione s.p.a., la quale, dopo aver
rappresentato, in fatto, che la sentenza del Tribunale di Salerno
citata dalla controparte ha accertato gravi infrazioni alle norme di
sicurezza anche da parte dei dipendenti della società Rem, tali da
assumere ruolo di concausa nella dinamica dell'incidente mortale, ha
contrastato, in punto di diritto, tutte le pretese avversarie chiedendo
il rigetto dell'appello.
Con la decisione parziale n. 2436/2009 la VI Sezione di questo
Consiglio, ribadita la sussistenza della giurisdizione del giudice
amministrativo, ha confermato la statuizione di irricevibilità della
domanda impugnatoria proposta con il ricorso di prime cure.
In ordine alla domanda risarcitoria riproposta in appello, la Sezione,
ravvisando la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla
questione di diritto, di particolare importanza, relativa ai rapporti
tra domanda di annullamento e iniziativa risarcitoria, ha rimesso la
decisione della controversia all'Adunanza plenaria, ai sensi dell'art.
45, comma 2, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, come sostituito dall'art. 5
legge 21 dicembre 1950, n. 1018 (oggi art. 99 del codice del processo
amministrativo di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104).
Le parti hanno, quindi, depositato memorie con le quali hanno
ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive.
All'odierna udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. La Sezione rimettente sottopone al vaglio dell'Adunanza Plenaria la
questione relativa ai rapporti tra domanda di annullamento e domanda di
risarcimento con riguardo ad una fattispecie nella quale viene chiesto
il ristoro dei danni cagionati da un provvedimento di sospensione dalle
gare non impugnato nel termine decadenziale.
2. E' noto che, con la storica sentenza 22 luglio 1999, n. 500, le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto
l'ammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi.
L'art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nel novellare l'art. 7,
comma 3, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, ha poi stabilito che, in
tali casi, la tutela risarcitoria va richiesta al giudice
amministrativo, atteggiandosi a "strumento di tutela ulteriore rispetto
a quello classico demolitorio" (così sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e
11 maggio 2006, n. 191 della Corte Costituzionale).
In questo quadro, l'elaborazione delle condizioni, processuali e
sostanziali, che governano la tutela risarcitoria degli interessi
legittimi è stata al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale e
dottrinale.
E' stato, in particolare, oggetto di approfondita analisi il tema della
pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all'azione di
danno.
2.1. A favore della tesi dell'autonomia delle due azioni si è
pronunciata la Cassazione a Sezioni unite la quale, con ordinanze nn.
13659 e 13660 del 13 giugno 2006 rese in sede di regolamento di
giurisdizione, ha affermato che la domanda di risarcimento può essere
proposta innanzi al giudice amministrativo anche in difetto della
previa domanda di annullamento dell'atto lesivo, per cui una
declaratoria di inammissibilità della domanda risarcitoria motivata
solo in ragione della mancata previa impugnazione dell'atto,
concretizza diniego della giurisdizione sindacabile da parte della
Corte di cassazione ex artt. 360, comma 1, n. 1 e 362 c.p.c..
Siffatta conclusione è stata ribadita dalla Sezioni Unite con le
sentenze 23 dicembre 2008, n. 30254, 6 settembre 2010, n. 19048, 16
dicembre 2010, n. 23595 e 11 gennaio 2011, n. 405. Detta ultima
pronuncia ha peraltro puntualizzato che il diniego di giurisdizione che
consente il sindacato della Cassazione è riscontrabile nelle sole
ipotesi in cui il Consiglio di Stato neghi la tutela risarcitoria per
il solo fatto della mancata impugnazione del provvedimento
amministrativo e non anche in quelle in cui il Giudice amministrativo
pervenga ad una pronuncia sfavorevole di merito in ragione della
valutazione in ordine all'assenza, in concreto, dei presupposti
sostanziali all'uopo necessari (nel caso di specie il Consiglio di
Stato non aveva ravvisato l'illegittimità della statuizione
amministrativa asseritamene produttiva del danno).
2.2. Con la decisione dell'Adunanza plenaria 22 ottobre 2007, n. 12
questo Consiglio di Stato ha, invece, confermato il principio della
pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto alla tutela
risarcitoria, già espresso dall'Adunanza plenaria con la decisione n. 4
del 2003.
La decisione di rimessione ha puntualmente riepilogato gli argomenti
posti a sostegno del permanere della pregiudizialità sulla base dei
seguenti punti, relativi:
- alla stessa struttura del processo amministrativo e alla tutela in
esso erogabile, dove, in armonia con gli artt. 103 e 113, co. 3, Cost.,
sia nella giurisdizione di legittimità, che in quella esclusiva, viene
in considerazione in via primaria la tutela demolitoria e solo in via
consequenziale ed eventuale quella risarcitoria, come
inequivocabilmente stabilito dall'art. 35, co.1, 4 e 5, d.lgs. n. 80
del 1998;
- alla cosiddetta presunzione di legittimità dell'atto amministrativo e
della connessa efficacia ed esecutorietà, che si consolida in caso di
omessa impugnazione o di annullamento d'ufficio (v. legge 11 febbraio
2005, n. 15);
- all'articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i
casi, concerne la stessa illegittimità del provvedimento, con la
conseguenza che il danno ingiusto non può essere configurato a fronte
di un'illegittimità del provvedimento che, per l'assolutezza della
cennata presunzione è, de jure, irreclamabile;
- all'assenza della condizione essenziale dell'ingiustizia del danno,
impedita dalla persistenza di un provvedimento inoppugnabile (o
inutilmente impugnato);
- alla concreta equivalenza del giudicato che, rilevando l'inesistenza
dell'appena ricordata condizione, dichiari l'improponibilità della
domanda con il giudicato che, pronunciandosi nel merito, dichiari
infondata - e questa volta con pronuncia inequivocabilmente sottratta a
verifica ex art. 362 cod.proc.civ.- la domanda per difetto della
denunziata illegittimità;
- ai limiti del potere regolatore della Corte di Cassazione (Sez. un.,
19 gennaio 2007, n. 1139; 4 gennaio 2007, n. 13) che, secondo il
correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo 2007,
n. 77), "con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell'art. 111,
comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei
conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente
non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o
di rito) di tale decisione". Ad analogo principio, prosegue la Corte,
"si ispira l'art. 386 c.p.c. applicabile anche ai ricorsi proposti a
norma dell'art. 362, co.1, c.p.c., disponendo che la decisione sulla
giurisdizione è determinata dall'oggetto della domanda e, quando
prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del
diritto e sulla proponibilità della domanda";
- alla correlata verifica degli eventuali limiti dell'indirizzo della
Corte di Cassazione secondo cui l'inoppugnabilità dell'atto
amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non
impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo.
Secondo tale approccio interpretativo, l'applicazione del principio
della pregiudizialità processuale conduce alla soluzione, in rito,
dell'inammissibilità della domanda risarcitoria non accompagnata o
preceduta dalla sperimentazione del rimedio impugnatorio entro il
prescritto termine decadenziale di sessanta giorni dalla piena
conoscenza del provvedimento illegittimo foriero dell'effetto lesivo.
3. Va, a questo punto, osservato che sui termini del dibattito è
destinata ad incidere, a regime, la disciplina dettata dal codice del
processo amministrativo di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010 (art. 2).
L'art. 30 del codice ha infatti previsto, ai fini che qui rilevano, che
l'azione di condanna al risarcimento del danno può essere proposta in
via autonoma (comma 1) entro il termine di decadenza di centoventi
giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero
dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da
questo (comma 3, primo periodo).
La norma, da leggere in combinazione con il disposto del comma 4
dell'art. 7 - il cui inciso finale prevede la possibilità che le
domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi
legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano
introdotte in via autonoma - sancisce, dunque, l'autonomia, sul
versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio
impugnatorio.
Detta autonomia è confermata, per un verso, dall'art. 34, comma 2,
secondo periodo, che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione
al generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della
legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con
l'azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso
art. 34, che consente l'accertamento dell'illegittimità a fini
meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di
annullamento non risulti più utile per il ricorrente.
Questo reticolo di norme consacra, in termini netti, la reciproca
autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con
l'affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria
"ancillarità" e "sussidiarietà" rispetto al paradigma caducatorio.
3.1. Il riconoscimento dell'autonomia, in punto di rito, della tutela
risarcitoria si inserisce - in attuazione dei principi costituzionali e
comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale richiamati dall'art. 1 del codice oltre che dei criteri
di delega fissati dall'art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 - in
un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante
processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza,
amplia le tecniche di tutela dell'interesse legittimo mediante
l'introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono,
infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna
(risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela dichiarativa
(cfr. l'azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31,
comma 4) e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l'azione di
condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all'adozione
del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti,
della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1
a 3).
Deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non
esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un
provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la
sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica,
l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto
amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto
dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza
una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione
si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e
dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di
condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la
situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già con riguardo al
quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2010, n.
2139; 9 febbraio 2009, n. 717).
In definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di
delega fissato dall'art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18
giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della
tutela dell'interesse legittimo al solo modello impugnatorio,
ammettendo l'esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce
dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa
della parte vittoriosa.
Di qui, la trasformazione del giudizio amministrativo, ove non vi si
frapponga l'ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività
discrezionali riservate alla pubblica amministrazione, da giudizio
amministrativo sull'atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua
dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio
del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal
medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa
sostanziale azionata.
Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di protezione, viene
confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell' interesse
legittimo in una con la centralità che il bene della vita assume nella
struttura di detta situazione soggettiva.
Come osservato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 500/1999,
l'interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale,
ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al
giudice amministrativo, né si risolve in un mero interesse alla
legittimità dell'azione amministrativa in sé intesa, ma si rivela
posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e
inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della
vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a
seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può
concretizzare un pregiudizio.
L'interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio
riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato
dall'esercizio del potere pubblicistico, che si compendia
nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul
corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la
realizzazione o la difesa dell'interesse al bene.
Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo, l'interesse
effettivo che l'ordinamento intende proteggere è quindi sempre
l'interesse ad un bene della vita che l'ordinamento, sulla base di
scelte costituzionalmente orientate confluite nel disegno codicistico,
protegge con tecniche di tutela e forme di protezione non più limitate
alla demolizione del provvedimento ma miranti, ove possibile, alla
soddisfazione completa della pretesa sostanziale.
In questo quadro normativo, sensibile all'esigenza di una piena
protezione dell'interesse legittimo come posizione sostanziale
correlata ad un bene della vita, risulta coerente che la domanda
risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro patrimoniale
senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti del
provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all'azione
impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo
rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con
chiarezza superato.
L'autonomia dell'azione si apprezza, con argomento a contrario, se si
rileva che, alla stregua dell'inciso iniziale del comma 1 dell'art. 30,
salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo
(segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di
diritti soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi
proprio alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai
successivi commi 2 e seguenti), la domanda di condanna può essere
proposta solo contestualmente ad altra azione. Si ricava allora che
mentre la domanda tesa ad una pronuncia che imponga l'adozione del
provvedimento satisfattorio, non è ammissibile se non accompagnata
dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento
del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex art.
31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma
rispetto al rimedio caducatorio.
3.2. Va, peraltro, osservato che il codice, pur negando la sussistenza
di una pregiudizialità di rito, ha mostrato di apprezzare, sul versante
sostanziale, la rilevanza eziologica dell'omessa impugnazione come
fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che,
secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati
presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei
confronti del provvedimento potenzialmente dannoso.
L'art. 30, comma 3, del codice dispone, infatti, al secondo periodo,
stabilisce che, nel determinare il risarcimento, "il giudice valuta
tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle
parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero
potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso
l'esperimento degli strumenti di tutela previsti".
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto
dell'art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa
attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro
del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla
stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai
fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con
l'ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l'omessa
impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da
considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e
consistenza del pregiudizio risarcibile.
Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità
giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo
amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del
danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al
principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta
la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo
il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa
(secondo il criterio del "più probabilmente che non" : Cass., sezioni
unite,11 gennaio 1008, n. 577; sez. III, 12 marzo 2010, n. 6045),
recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell'art.
1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze
dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante
prettamente causale, dell'omessa o tardiva impugnazione come fatto che
preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente
evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela
specifica predisposto dall'ordinamento a protezione delle posizioni di
interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi.
Va aggiunto che la latitudine del generale riferimento ai mezzi di
tutela e al comportamento complessivo consente di soppesare l'ipotetica
incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del
provvedimento dannoso ma anche dell'omessa attivazione di altri rimedi
potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali la via dei ricorsi
amministrativi e l'assunzione di atti di iniziativa finalizzati alla
stimolazione dell' autotutela amministrativa (cd. invito
all'autotutela).
Va, del pari, apprezzata l'omissione di ogni altro comportamento
esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio
significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita
alla stregua del canone di buona fede di cui all'art. 1175 e del
principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.
La rilevanza sostanziale delle condotte negligenti, eziologicamente
pregnanti, è confermata anche dall'art. 124 del codice del processo
amministrativo e dell'art. 243 bis del codice dei contratti pubblici di
cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
La prima disposizione sancisce, al comma 2, questa volta recando un
riferimento esplicito alla normativa civilistica, che "la condotta
processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto
la domanda di cui al comma 1" (ossia la domanda di conseguire
l'aggiudicazione e il contratto) "o non si è resa disponibile a
subentrare nel contratto è valutata dal Giudice ai sensi dell'art. 1227
del codice civile".
Inoltre, l'art. 243 bis del codice dei contratti pubblici, aggiunto
dall'art. 6 del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, come
modificato dall'art. 3 dell' allegato 4 allo stesso decreto legislativo
n. 104/2010, nel disciplinare l'istituto dell'informativa in ordine
all'intento di proporre ricorso giurisdizionale, stabilisce, al comma
5, che l'omissione della comunicazione di cui al comma 1, finalizzata
alla stimolazione dell'autotutela, costituisce comportamento valutabile
ai sensi dell'art. 1227 del codice civile.
Dall'esame coordinato delle richiamate disposizioni si evince che il
legislatore, se da un lato non ha recepito il modello della
pregiudizialità processuale della domanda di annullamento rispetto a
quella risarcitoria, dall'altro ha mostrato di apprezzare la rilevanza
causale dell'omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito la
consolidazione dell'atto e dei suoi effetti dannosi.
In tal modo il codice ha suggellato un punto di equilibrio capace di
superare i contrasti ermeneutici registratisi in subiecta materia tra
le due giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il
legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi
della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella
della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che,
non considerando l'omessa impugnazione quale sbarramento di rito,
aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da
apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per
escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso
per l'annullamento.
E tanto sulla scorta di una soluzione che conduce al rigetto, e non
alla declaratoria di inammissibilità, della domanda avente ad oggetto
danni che l'impugnazione, se proposta nel termine di decadenza, avrebbe
consentito di scongiurare.
4. L'Adunanza Plenaria, consapevole dell'inapplicabilità delle norme
del codice, entrato in vigore il 16 settembre 2010, ad una fattispecie
ed ad un giudizio risalenti ad epoca anteriore, reputa, tuttavia, che
la disciplina ora analizzata, nella parte che rileva ai fini della
risoluzione della presente controversia, pervenga ad una soluzione
convincente delle divergenze interpretative, estensibile a situazioni
anteriori in quanto ricognitiva di principi evincibili dal sistema
normativo antecedente all'entrata in vigore del codice.
Reputa, infatti, questo Consiglio che entrambi i principi affermati dal
d.lgs. n. 104 del 2010 - quello dell'assenza di una stretta
pregiudiziale processuale e quello dell'operatività di una connessione
sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione
risarcitoria - fossero ricavabili anche dal quadro normativo vigente
prima dell'entrata in vigore del codice.
5. La mancanza di una pregiudizialità di stretto rito è desumibile
dalla ricordata autonomia, sul piano dell'oggetto e dell'effetto,
dell'iniziativa impugnatoria rispetto al rimedio risarcitorio, tale da
escludere che, per definizione e in astratto, una sentenza che condanni
al risarcimento del danno cagionato dal provvedimento si risolva nella
caducazione degli effetti dell'atto e, quindi, in una non ammissibile
elusione del termine decadenziale, con frustrazione dell'esigenza di
certezza dei rapporti giuridici amministrativi perseguita dalla
previsione di detto termine.
Si consideri poi, a conferma della diversità e della non automatica
sovrapponibilità delle regole di validità del provvedimento rispetto a
quelle di liceità del fatto, che il danno non è di norma cagionato dal
provvedimento in sé inteso ma da un fatto, ossia da un comportamento,
in seno al quale rilevano anche le condotte precedenti e successive
all'atto. In caso di fatto illecito non viene allora in rilievo una
mera illegittimità del provvedimento in sé ma un'illiceità della
condotta complessiva riguardo alla quale assume rilievo centrale il
giudizio sintetico-comparativo di valore sull'ingiustizia del danno
nonché la valutazione della rimproverabilità soggettiva del contegno.
In definitiva, nell'ambito di un giudizio risarcitorio relativo alla
liceità dell'agere amministrativo, l'omessa impugnazione del
provvedimento non può essere adeguatamente affrontata in termini
processuali come condizione di ammissibilità della domanda per via
dell'estensione analogica di un termine decadenziale previsto per
l'impugnazione, termine per sua natura eccezionale e, quindi,
sottoposto al rispetto di un canone di stretta interpretazione. Di
tanto è consapevole lo stesso legislatore che, proprio nell'assunto
della non estensibilità del termine decadenziale che governa il rimedio
impugnatorio ad una domanda che ha un diverso oggetto e mira a produrre
un diverso effetto, ha previsto, per il futuro, un autonomo termine
decadenziale per l'actio damni proposta a tutela di interessi
legittimi, pari a centoventi giorni, a fronte del temine di
prescrizione quinquennale sancito, in via generale, per i fatti
illeciti, dall'art. 2947 c.c.
La mancata operatività di una pregiudizialità processuale si coniuga
con gli arresti della prevalente giurisprudenza comunitaria che
considerano la domanda di annullamento e quella di risarcimento rimedi
autonomi pur se escludono la favorevole valutazione della domanda
risarcitoria quando essa mascheri un'ormai tardiva azione di
annullamento, così come negano la risarcibilità dei danni che sarebbero
stati evitati con la tempestiva impugnazione (Corte Giust. 28 aprile
1971, in causa C-4/69, Lutticke; Corte Giust. 2 dicembre 1971, in causa
C-5/71, Actien-Zuckerfabrik; Corte Giust. 4 ottobre 1979, in cause
riunite 241, 242, 245-250/78, DGV-Deutsche Getreivertretung; Corte
Giust. 17 maggio 1990, in causa C-87/89, Sonito; Trib primo grado 8
maggio 2001, in causa T-182/99, Caravelis; vedi anche, con riguardo al
problema affine dei rapporti tra ricorso in carenza e domanda di
risarcimento, Corte Giust. 2 luglio 1974, in causa C-153/73, Holtz e
Willemsen GmbH c. Consiglio e Commissione).
La soluzione adottata dal diritto comunitario, come interpretato dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel senso dell'autonomia
processuale delle due tecniche di protezione, assume un rilievo
pregnante nel nostro ordinamento alla luce dell'art. 1 del codice del
processo amministrativo che richiama espressamente i principi della
Costituzione e del diritto europeo volti ad assicurare una tutela
giurisdizionale piena ed effettiva.
La soluzione è suffragata anche dall'evoluzione della legislazione
nazionale - registratasi già prima dal codice del processo
amministrativo e da questo armonicamente portata a compimento - in
ordine alle tecniche di tutela dell'interesse legittimo ed al sistema
delle invalidità nel diritto amministrativo.
La tesi della necessaria subordinazione della tutela risarcitoria alla
tutela di annullamento è, infatti, non in linea con la tendenza
legislativa a superare il modello dell'esclusività della tutela
impugnatoria con la conseguente ammissione di tecniche di tutela
dell'interesse legittimo anche dichiarative (art. 21 septies della
legge 7 agosto 1990, n. 241/1990, in materia di azione di nullità) e di
condanna (art 2, comma 8, di tale legge e art. 21 bis della legge 6
dicembre 1971, n. 1034, in tema di azione nei confronti del silenzio
non significativo; art. 7, comma 3, di tale legge, come mod. dalla
legge n. 205 del 2000; art. 21 bis della legge 1971, n. 1034,
introdotto dalla stessa legge n. 205 del 2000, rispettivamente in
materia di tutela risarcitoria in generale e di danno da ritardo).
Si deve, in particolare, osservare, a conferma del superamento della
centralità della tutela di annullamento ove siano percorribili altre e
più appropriate forme di tutela, che l'art. 21 octies, comma 2, della
legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall'art. 14 della legge 11
febbraio 2005, n. 15, ha statuito che il provvedimento amministrativo
non è suscettibile di annullamento ove sia affetto da vizi
procedimentali o formali che non abbiano influito sul contenuto
dispositivo dell'atto finale.
Sullo stesso solco si pone il citato art. 34, comma 3, del codice del
processo amministrativo- richiamato, nel rito dei contratti pubblici,
dall'art. 125, comma 3- , il quale stabilisce che "quando nel corso del
giudizio l'annullamento del provvedimento non risulti più utile per il
ricorrente il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste
l'interesse a fini risarcitori".
La diposizione consente che un'azione costitutiva di annullamento, non
più supportata dal necessario interesse, sia convertita in un'azione
meramente dichiarativa di accertamento dell'illegittimità, da far
valere in un (anche successivo) giudizio di risarcimento.
Si recepisce, in sostanza, l'indirizzo ermeneutico, già tracciato da
questo Consiglio (sez. V, 16 giugno 2009, n. 3849), secondo cui, a
fronte della domanda di annullamento inidonea a soddisfare l'interesse
in forma specifica (nella specie veniva in considerazione un
provvedimento di espropriazione relativo ad aree non più restituibili
in quanto irreversibilmente trasformate), la pronuncia - nel caso in
parola motivata con riguardo alla regula iuris sottesa agli artt. 2058
e 2933 c.c. - deve limitarsi ad un accertamento dell'illegittimità,
senza esito di annullamento, ai soli fini della tutela risarcitoria
invocabile con riguardo agli eventuali danni patiti per effetto
dell'esecuzione del provvedimento impugnato.
Va, da ultimo, osservato che l'autonomia del mezzo impugnatorio quale
strumento idoneo a soddisfare in modo adeguato la pretesa azionata
anche in caso di preclusione della tutela di di annullamento, è stata
di recente ribadita dalla Corte Costituzionale con la sentenza 11
febbraio 2011, n. 49, che ha respinto la questione di legittimità
costituzionale sollevata, rispetto ai parametri di cui agli art. 2, 24,
103 e 113 della Costituzione, nei confronti dell'art. 2, commi 1,
lettera b), e, in parte qua, 2, del decreto-legge 19 agosto 2003, n.
220, convertito dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, nella parte in cui
detta una normativa che riserva al giudice sportivo la cognizione delle
controversie relative alle sanzioni disciplinari non tecniche inflitte
ad atleti, tesserati associazioni e società sportive, sottraendola al
giudice amministrativo, anche là dove esse incidano su diritti ed
interessi legittimi.
Al par. 4.5. della motivazione, la sentenza della Consulta ha posto a
fondamento della statuizione di rigetto il rilievo che la mancata
praticabilità della tutela impugnatoria non toglie che le situazioni di
diritto soggettivo o di interesse legittimo siano adeguatamente
tutelabili innanzi al giudice amministrativo, munito oltretutto di
giurisdizione esclusiva in subiecta materia, mediante la tutela
risarcitoria.
Si supera così l'impostazione tradizionale che vedeva l'annullamento
quale sanzione indefettibile a fronte del riscontro di un vizio di
legittimità, dandosi vita ad un sistema delle tutele duttile, che
consente un accertamento non costitutivo dell'illegittimità, a fini
risarcitori.
In definitiva, l'evoluzione del diritto amministrativo, già nel sistema
normativo anteriore al codice del processo amministrativo, si è
orientata in senso opposto alla praticabilità di una soluzione
rigidamente processuale che imponga la proposizione del ricorso di
annullamento quale condizione per accedere alla tutela risarcitoria
anche quando la sentenza costitutiva non sia, o non sia più, necessaria
ed utile per soddisfare l'interesse sostanziale al bene della vita.
6. La soluzione esposta si pone in linea di continuità con il più
recente orientamento interpretativo di questo Consiglio (sez. VI, 19
giugno 2008, n. 3059; sez. V, 3 febbraio 2009, n. 578; sez. VI, 21
aprile 2009, n. 24363; sez V, 3 novembre 2010, n. 7766), che ha
spostato l'indagine sul rapporto tra azione di danno e domanda di
annullamento dal terreno processuale al piano sostanziale, pervenendo
alla condivisibile conclusione che la mancata promozione della domanda
impugnatoria non pone un problema di ammissibilità dell'actio damni ma
è idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria.
L'Adunanza Plenaria, sviluppando queste coordinate ermeneutiche alla
luce dei principi ricavabili anche dal sopravvenuto codice del processo
amministrativo, reputa che l'analisi dei rapporti sostanziali debba
essere svolto, piuttosto che sul piano dell'ingiustizia del danno
valorizzato dalle pronunce in esame, su quello della causalità.
Detta indagine consente, in modo più appropriato, di introdurre il
necessario temperamento all'autonomia processuale delle tutele
cogliendo la dipendenza sostanziale, come fatto da apprezzare in
concreto, tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria.
In questo quadro, le esigenze di preservazione della stabilità dei
rapporti pubblicistici e di prevenzione di comportamenti
opportunistici, perseguite dalla giurisprudenza anche di questa
Adunanza Plenaria con l'affermazione del principio della
pregiudizialità ed evidenziate in modo puntuale nell'ordinanza di
rimessione, possono allora essere soddisfatte, in modo più convincente,
con l'applicazione delle norme di cui agli artt. 1223 e seguenti del
codice civile in materia di causalità giuridica.
7. Assume rilievo, in particolare, il più volte citato disposto
dell'art. 1227, comma 2, del codice civile - norma applicabile anche in
materia aquiliana per effetto del rinvio operato dall'art. 2056 - che,
dando seguito ad un principio già affermato dalla dottrina francese
ottocentesca, considera non risarcibili i danni evitabili con un
comportamento diligente del danneggiato.
L'Adunanza, riprendendo le indicazioni già in precedenza fornite,
reputa che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con
l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e
degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, oggi sancita
dall'art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, sia
ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'
interpretazione evolutiva del capoverso dell'articolo 1227 cit.
7.1. Come è noto, le regole di cui al primo e al secondo comma
dell'art. 1227 disciplinano i due diversi segmenti del nesso causale in
materia di illecito civile.
In particolare, il comma 1, in combinato disposto con l'art. 1218 c.c.,
nell'affrontare il primo stadio della causalità (c.d. causalità
materiale), inerente al rapporto tra condotta illecita (o inadempitiva)
e danno-evento, valorizza il concorso di colpa del danneggiato come
fattore che limita il risarcimento del danno-causato in parte dallo
stesso danneggiato o dalle persone di cui questi risponde.
Il comma 2, invece, operando sui criteri di determinazione del
danno-conseguenza ex art. 1223 c.c, regola il secondo stadio della
causalità (c.d. causalità giuridica), relativo al nesso tra
danno-evento (o evento-inadempimento contrattuale) alle conseguenze
dannose da esso derivanti.
In questo quadro la norma introduce un giudizio basato sulla cd.
causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il
danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il
comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza. Si
vuole, a questa stregua, circoscrivere il danno derivante
dall'inadempimento entro i limiti che rappresentano una diretta
conseguenza dell'altrui colpa.
Sul piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale
principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire
comportamenti opportunistici che intendano trarre occasione di lucro da
situazioni che hanno leso in modo marginale gli interessi dei
destinatari tanto da non averli indotti ad attivarsi in modo adeguato
onde prevenire o controllare l'evolversi degli eventi (cfr., per
ulteriori applicazioni del principio di causalità ipotetica, artt.
1221, comma 1 e 1805, comma 2 c.c., 369 cod nav.).
L'articolo 1227, capoverso, costituisce allora applicazione del più
generale principio di esclusione della responsabilità ogni volta in cui
si provi, in base ad un giudizio ipotetico più che strettamente
causale, che il danno prodottosi non rappresenta una perdita
patrimoniale per il creditore o per il danneggiato in quanto l'avrebbe
egualmente subita o perché avrebbe potuto evitarla.
La giurisprudenza e la dottrina hanno nel tempo dilatato, in sede
interpretativa, la portata ed i confini dell'impegno cooperativo
gravante sul creditore vittima di un altrui comportamento illecito.
Risulta così superato il tradizionale indirizzo restrittivo secondo il
quale il canone della "diligenza" di cui all'art. 1227, comma 2,
imporrebbe il mero obbligo (negativo) del creditore di astenersi da
comportamenti volti ad aggravare il danno, mentre esulerebbe dallo
spettro degli sforzi esigibili la tenuta di condotte di tipo positivo
sostanziantisi in un facere. La giurisprudenza più recente, muovendo
dal presupposto che la disposizione in parola non è formula meramente
ricognitiva dei principi che governano la causalità giuridica
consacrati dall'art. 1223 c.c. ma costituisce autonoma espressione di
una regola precettiva che fonda doveri comportamentali del creditore
imperniati sul canone dell' auto-responsabilità, ha, infatti, adottato
un'interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell'art. 1227,
secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo
(astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo
(tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili,
rivolte a evitare o ridurre il danno).
Tale orientamento si fonda su una lettura dell'art. 1227, comma 2, alla
luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli
artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà
sociale sancito dall'art. 2 Cost. Detto approccio ermeneutico è,
quindi, ispirato da una lettura della struttura del rapporto
obbligatorio in forza della quale, anche nella fase patologica
dell'inadempimento, il creditore, ancorché vittima dell'illecito, è
tenuto ad una condotta positiva (cd. controazione) tesa ad evitare o a
ridurre il danno.
Un limite all'obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e
agli sforzi in capo allo stesso esigibili è, peraltro, rappresentato
dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio: il danneggiato è tenuto
ad agire diligentemente per evitare l'aggravarsi del danno, ma non fino
al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e
patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse,
impegnative e rischiose. L'obbligo di cooperazione gravante sul
creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli
obbligati, non comprende, pertanto, l'esplicazione di attività
straordinarie o gravose attività, ossia un "facere" non corrispondente
all' id quod plerumque accidit. (così, da ultimo, Cass.civ., sez. I, 5
maggio 2010, n. 10895).
7.2. Resta allora da vedere, venendo al tema oggetto del presente
giudizio, se nel novero dei comportamenti esigibili dal destinatario di
un provvedimento lesivo sia sussumibile, ai sensi dell'art. 1227, comma
2, c.c., anche la formulazione, nel termine di decadenza, della domanda
di annullamento, quante volte l'utilizzazione tempestiva di siffatto
rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della
causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in
tutto o in parte, il pregiudizio.
7.2.1. L'Adunanza non ignora che, secondo l'orientamento interpretativo
tradizionalmente prevalente, il comportamento operoso richiesto al
creditore non comprenderebbe l'esperimento di un'azione giudiziaria,
sia essa di cognizione o esecutiva, trattandosi di attività per
definizione complessa e aleatoria, come tale non esigibile in quanto
esplicativa di una mera facoltà, dall'esito non certo.
Questo Consiglio reputa tuttavia che tale indirizzo, laddove fissa, con
affermazione perentoria ed astratta, il principio dell'inesigibilità ex
bona fide di condotte processuali, meriti rivisitazione.
In linea di principio va osservato che il principio
dell'insindacabilità delle scelte giudiziarie, al di là dei limiti e
dei divieti puntualmente stabiliti, è interessato da un graduale ma
chiaro superamento da parte della giurisprudenza più recente della
Corte di Cassazione, propensa a sanzionare le condotte processualmente
scorrette con gli strumenti del divieto dell'abuso del diritto, della
clausola di buona fede e dell'exceptio doli generalis.
Va ricordata, al riguardo, la sentenza della Cassazione, sezioni unite,
15 novembre 2007, n. 23726 (conf. sez. III 3 maggio 2008, n, 15476;
sez. II, 27 maggio 2008, n. 13791), che ha affermato il principio
secondo cui il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di
un credito unitario integra condotta contraria alla regola generale di
correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di
solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso
del processo ostativo all'esame della domanda.
Tale pronuncia afferma con forza la vigenza, nel nostro sistema, di un
generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, che, ai sensi
dell'art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali
al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto.
A questa stregua la disarticolazione, da parte del creditore,
dell'unità sostanziale del rapporto (sia pure nella fase patologica
della coazione all'adempimento), oltre a violare il generale dovere di
correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il
processo, si risolve anche in abuso dello stesso ed in una violazione
del canone del giusto processo. Viene così in rilievo una condotta che,
pur formalmente conforme al paradigma normativo, disattende il limite
modale che impone al titolare di ogni situazione soggettiva di non
azionarla con strumenti, sostanziali e processuali, che infliggano
all'interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal
perseguimento di un lecito e ragionevole interesse (v. sul concetto di
limite modale, con particolare riguardo all'esercizio del diritto di
recesso nei rapporti negoziali, Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n,
20106).
Il divieto di abuso del diritto si applica allora anche in chiave
processuale: il creditore deve evitare di esercitare un'azione con
modalità tali da implicare un aggravio della sfera del debitore, sì che
il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del
processo Si giunge, così, all'elaborazione della figura dell'abuso del
processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del
potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti
strategie di difesa (conf. Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634, che
applica il principio del divieto di abuso del processo ai fini della
liquidazione delle spese giudiziali; per un ancoraggio dell'abuso del
processo, in correlazione agli artt. 24, 111 e 113 Cost. nonché ai
principi del diritto europeo, si vedano gli articoli 88, 91, 94 e 96
del codice di rito civile e gli artt. 1, 2 e 26 del codice del processo
amministrativo).
Ai fini che qui interessano, assume particolare rilievo la circostanza,
sottolineata dalle Sezioni Unite, che il divieto di abuso concerne,
oltre che la fase fisiologica del rapporto, anche quella patologica: il
creditore, cioè, deve cooperare col debitore non solo per agevolare
l'adempimento, ma anche per non aggravare la sua posizione una volta
che si è verificata la violazione dell'impegno obbligatorio. E tanto si
ricava proprio dal secondo comma dell'art. 1227 c.c., il quale impone a
colui che abbia subito l'inadempimento (o il fatto illecito) di porre
in essere in base a buona fede anche comportamenti attivi, entro i
limiti del sacrificio non apprezzabile, per evitare l'aggravamento del
danno.
7.2.2. In definitiva, la persuasiva elaborazione pretoria di cui si è
dato conto mette in luce che il divieto di tenere condotte contrarie a
buona fede ha un ancoraggio costituzionale nel dettato dell'art. 2
Cost, costituisce canone di valutazione anche delle condotte
processuali ed opera anche nella fase patologica del rapporto
obbligatorio.
Ora, se si considera che, alla stregua di questa recente e convincente
lettura, l'obbligo di cooperazione di cui al comma 2 dell'art. 1227 ha
fondamento proprio nel canone di buona fede ex art. 1175 c.c. e,
quindi, nel principio costituzionale di solidarietà, si deve concludere
che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire in
astratto comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della
mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di
causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive
trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed
avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul
perimetro del danno.
Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per
definizione, la sincadabilità delle condotte processuali ai sensi del
capoverso dell'art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo
che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza,
buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione,
consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale,
del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto.
7.2.3. Applicando detto criterio interpretativo, si deve allora
ritenere che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo
possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede
nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe
evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 24
settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31
dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136) .
Si deve, infatti, considerare che il ricorso per annullamento
finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l'unica
tutela esperibile, è il mezzo di cui l'ordinamento giuridico
processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo
proprio per evitare che quest'ultimo produca conseguenze dannose. Ne
deriva che l'utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore
proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica
delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile,
costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del
dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame.
Nella specie assume un ruolo decisivo la considerazione, di tipo
comparativo, che la tecnica di tutela non praticata, quella di
annullamento, se si eccettua il profilo del termine decadenziale, non
implica costi ed impegno superiori a quelli richiesti per la tecnica di
tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più semplice e meno aleatoria
nella misura in cui richiede il solo riscontro della presenza di un
vizio di legittimità invalidante senza postulare la dimostrazione degli
altri elementi invece necessari a fini risarcitori, quali l'elemento
soggettivo, il duplice nesso eziologico nonché l'esistenza e la
consistenza del danno risarcibile in base ai parametri di cui agli
artt.1223 e seguenti del codice civile
Si deve allora reputare che la scelta di non avvalersi della forma di
tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche
alle misure cautelari previste dall'ordinamento processuale, avrebbe
plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in
parte il danno, integra violazione dell'obbligo di cooperazione, che
spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del
danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla
successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno
che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende
configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che
viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di
auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma 2, c.c.,
implica la non risarcibilità del danno evitabile.
A diversa conclusione si deve invece pervenire laddove la decisione di
non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un'opzione
discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l'interesse
all'annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in
generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si
consideri, a titolo esemplificativo, l'ipotesi in cui il provvedimento
sia stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto
irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non
consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il
rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui,
per effetto di specifica previsione di legge (cfr. l'art. 246, comma 4,
del codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell'art. 125,
comma 3, del codice del processo amministrativo), il mezzo
dell'annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l'aspirazione
al conseguimento del bene della vita desiderato. Dette evenienze,
ostative al soddisfacimento in natura della posizione azionata, possono
maturare nel corso del giudizio in guisa da produrre la concentrazione
in itinere della domanda sul solo profilo del risarcimento sulla base
della regola giurisprudenziale prima ricordata, oggi canonizzata
dall'art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo.
La soluzione esposta, che riprende indicazioni già fornite dalla Corte
di Cassazione nelle citate ordinanze delle Sezioni Unite 13 giugno
2006, nn. 13659 e 13660, si pone in linea con l'indirizzo sostenuto
dalla prevalente giurisprudenza comunitaria che, come in precedenza
sottolineato, pur ammettendo la proponibilità della domanda
risarcitoria in via autonoma rispetto al rimedio impugnatorio,
considera nel merito infondata la pretesa al ristoro dei danni che
sarebbero stati evitati mediante la tempestiva impugnazione dell'atto
lesivo.
Si sancisce in questo modo un coordinamento, non processuale ma
sostanziale, tra il rimedio caducatorio e quello risarcitorio. In
questi termini, come è stato efficacemente notato in dottrina, si può
parlare di un coordinamento delle tutele più che di un coordinamento
delle azioni.
7.2.4. Va soggiunto che la mancata proposizione del ricorso per
annullamento va apprezzata nel quadro di una valutazione più ampia -
oggi recepita dagli artt. 30 e 124 del codice del processo
amministrativo oltre che dall'art. 243 bis del codice dei contratti
pubblici- del comportamento complessivo della parte in seno al quale
detta omissione processuale si colloca.
Andrà allora ponderata la concorrente rilevanza eziologica spiegata dal
mancato utilizzo di rimedi e di condotte che, non implicando rilevanti
costi e oneri, sono, a maggior ragione, esigibili, alla stregua dei
canoni ermeneutici sopra esposti, come l'attivazione del rimedio dei
ricorsi amministrativi e la proposizione di tempestive istanze volte a
sollecitare la rimozione o la modificazione in autotutela del
provvedimento illegittimo, in una agli ulteriori comportamenti
diligenti idonei ad incidere in senso favorevole sul rapporto
amministrativo oggetto del provvedimento illegittimo (cfr. art. 243 bis
del codice dei contratti pubblici).
8. Vanno, infine, analizzati i profili processuali e probatori che
connotano l'applicazione al processo amministrativo della regula iuris
sottesa all'art. 1227, capoverso, del codice civile.
Questa Adunanza reputa di non diversi discostare e dall'orientamento
già espresso dal Consiglio (sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 5183) in
merito alla necessità di adattare l'applicazione della regola
civilistica alle peculiarità del processo amministrativo imperniato sul
metodo acquisitivo che permea l'operatività del principio dispositivo
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 924; vedi oggi l'art.
63, comma 2, del codice del processo amministrativo). Si deve poi
tenere conto della specificità del tema probatorio in esame, il quale
impinge in buona misura su quaestiones iuris - quelle relative
all'individuazione degli strumenti giuridici di tutela praticabili, al
plausibile esito del ricorso per annullamento ed agli sbocchi degli
ulteriori mezzi di tutela anche stragiudiziali- che soggiacciono al
principio iura novit curia.
Si deve allora ritenere che, sulla base di principi già desumibili dal
quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall'art. 30, comma 3, del
codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia
chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed
acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se
il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell'utilizzazione
degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di
causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il
comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il
danno.
Un rilievo significativo è destinato ad assumere l'utilizzo del mezzo
di prova delle presunzioni ex artt. 2727 e seguenti del codice civile,
che consente di valutare se l'apprezzamento dell'illegittimità
dell'atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche
all'annullamento dello stesso - dato, questo, in linea generale
presumibile, vista l'identità dell'oggetto delle valutazioni - in modo
da impedire, alla luce anche delle misure provvisorie adottabili in
corso di giudizio o ante causam, di mitigare o ridurre il danno.
9. Si può a questo punto esaminare il caso di specie in forza delle
coordinate fin qui esposte.
L'illegittimità del provvedimento di sospensione dalle gare per nove
mesi risulta acclarata in ragione dell'assenza di un'adeguata
istruttoria e del difetto di una congrua motivazione in ordine
all'effettiva addebitabilità a colpa dell'impresa appaltatrice
dell'incidente che ha indotto l'ENEL Distribuzione s.p.a. all'adozione
dell'atto lesivo.
Deve allora darsi risposta alla duplice domanda se la condotta
dell'impresa abbia integrato violazione del canone comportamentale
cristallizzato dall'art. 1227, comma 2, c.c. (oggi recepito dall'art.
30, comma 3, del codice del processo amministrativo) ed abbia spiegato
un effetto eziologico nella produzione di un danno altrimenti evitabile.
Il Consiglio, nel confermare, con le seguenti integrazioni
motivazionali la soluzione adottata dal primo giudice, reputa che ad
entrambi i quesiti vada data risposta positiva.
Quanto al primo aspetto appare determinante la circostanza che, a
fronte di un provvedimento adottato il 30 settembre 1999, recante la
sospensione degli inviti a gare d'appalto nell'intero ambito
territoriale di competenza per un periodo di nove mesi a far data dal
1° ottobre 1999, l'impresa abbia reagito con atto di citazione innanzi
al Giudice civile solo il 6 maggio 2002, ossia ad oltre due anni e
mezzo di distanza, per poi proporre ricorso innanzi al Tribunale
Amministrativo dopo oltre un anno dalla sentenza n. 6221 del 25 maggio
n 2004 con la quale il Tribunale civile di Napoli aveva dichiarato il
difetto di giurisdizione.
La totale inerzia osservata dall'appellante, nella coltivazione di
rimedi giudiziali e di iniziative stragiudiziali, lungo tutto l'arco
temporale nel corso del quale l'atto ha spiegato il suo effetto
inibitorio e per un ulteriore e assai ampio spatium temporis, integra,
alla luce della gravità degli effetti lesivi denunciati, una chiara
violazione degli obblighi cooperativi che gravano sul creditore
danneggiato. Detto aspetto è stato già apprezzato dalla sentenza
appellata e dalla decisione di rimessione che hanno affermato la
sussistenza della giurisdizione amministrativa e negato la concessione
del beneficio dell'errore scusabile alla luce di consolidati principi
giurisprudenziali che avevano affermato la natura autoritativa del
potere esercitato da ENEL e la qualificazione pubblicistica assunta da
detto soggetto in subiecta materia, oltre che in considerazione del
ritardo con il quale l'appellante ha riproposto la domanda risarcitoria
innanzi al giudice amministrativo.
Quanto al profilo eziologico, l'Adunanza, applicando le regole prima
esposte che presiedono al giudizio di causalità ipotetica in materia
risarcitoria, ritiene di poter concludere che i danni lamentati
sarebbero stati in toto evitati se l'impresa si fosse tempestivamente
avvalsa degli strumenti di tutela predisposti all'uopo dall'ordinamento
ed avesse posto in essere le ulteriori iniziative esigibili ex bona
fide. Appare al riguardo determinante la circostanza che il ricorrente
non solo non abbia proposto il ricorso giurisdizionale amministrativo,
così vedendosi preclusa la via delle misure provvisorie in corso di
causa, ma non abbia neanche sperimentato la via dei ricorsi
amministrativi, così come non abbia compiuto atti volti a stimolare
l'autotutela al pari di atti di iniziativa finalizzati a partecipare
alle singole procedure di suo specifico interesse, con conseguente
contestazione dei puntuali provvedimenti di esclusione.
L'Adunanza reputa che la tempestiva utilizzazione di tali rimedi
avrebbe consentito di ottenere l'ammissione alle singole procedure e,
quindi, di perseguire una tutela specifica dell'interesse leso. Si deve
allora convenire che il comportamento dell'appellante ha assunto un
ruolo eziologico decisivo nella produzione di un pregiudizio che il
corretto utilizzo dei rimedi rammentati, inquadrato nella condotta
complessiva esigibile, avrebbe plausibilmente consentito di evitare,
alla luce dei vizi denunciati, della gravità del pregiudizio lamentato
e del tasso di effettività della tutela che i mezzi non sperimentati
avrebbero consentito di ottenere.
10. Alla stregua delle considerazioni che precedono l'appello deve
essere respinto.
La complessità delle questioni di diritto affrontate e le oscillazioni
interpretative che hanno caratterizzato la giurisprudenza in materia
giustificano, tuttavia, l'integrale compensazione delle spese del
presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto,
lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza appellata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 febbraio
2011 con l'intervento dei magistrati:
Pasquale de Lise, Presidente del Consiglio di Stato
Giancarlo Coraggio, Presidente di Sezione
Gaetano Trotta, Presidente di Sezione
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Marco Lipari, Consigliere
Marzio Branca, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere, Estensore
Maurizio Meschino, Consigliere
Sergio De Felice, Consigliere
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 23/03/2011.